LA MORTE DI STALIN E I COMMENTI COMUNISTI

Per rendersi conto della incredibile catena di falsità, calunnie e sconvolgimenti della storia messi in atto dal PCI e in genere dalla sinistra e dai fiancheggiatori, non c’è niente di meglio che andare a rileggersi quello che scrivevano. Iniziamo con la morte di Stalin, i cui crimini non solo erano conosciuti in Occidente, ma dei qualii Togliatti era stato complice.

6 MARZO 1953 – “6 marzo 1953. Flash – Giuseppe Stalin è morto (Comunic. Ansa, ore 02.10)

E’ bene fermarci qui per vedere le corbellerie scritte allora dai vari compagni:

Palmiro Togliatti su “Rinascita” n. 12 del 21 dicembre 1949 – Messaggio per il 70° compleanno di Stalin.”Invano avremmo sperato di andare avanti per riportare successi, se non avessimo avuto VOI, dirigente, animatore, capo geniale (…)Noi sappiamo che senza di Voi, compagno Stalin, il popolo italiano si troverebbe oggi in condizioni incomparabilmente più dure (…)Voi ci avete insegnato ad essere comunisti, a lottare in tutte le condizioni, ad essere fedeli sino all’ultimo ai principi del marxismo-leninismo, a servire la causa della emancipazione dei lavoratori. Ci impegnamo ad essere fedeli al vostro insegnamento (…)Salutiamo in voi la forza invincibile della classe operaia, la realizzazione dei più alti ideali dell’umanità.Vi auguriamo lunghi anni di vita e di salute, per il bene dei popoli dell’Unione Sovietica, per il bene della classe operaia e dei popoli del mondo intero. Gloria a Voi, compagno Stalin!”

“L’Unità”, “Commemorazione di Stalin” alla Camera dei Deputati -7 marzo 1953.”Difficile è a me parlare oggi di Stalin; l’animo è oppresso dall’angoscia per la scomparsa dell’uomo più che tutti gli altri venerato ed amato, del maestro, del compagno, dell’amico. Giuseppe Stalin è un gigante del pensiero e dell’azione, con il suo nome verrà chiamato un secolo intero”.

dal saluto dei comunisti italiani al XIX Congresso del PCUS, 1952.”(…) A voi, e prima di tutto al vostro grande capo il compagno Stalin, siamo debitori dei progressi compiuti dalla dottrina marxista in questo nuovo periodo della storia dell’umanità”.

Togliatti su “Il complotto contro la rivoluzione russa”.”Non esiste al mondo un solo tribunale la cui composizione, le cui leggi, la cui procedura offrano una completa garanzia di equità non soltanto formale ma essenziale, pari a quella del Tribunale sovietico proletario, opera di una rivoluzione che ha troncato le radici di tutte le ingiustizie e di tutti i privilegi (…)Nessuno può mettere in dubbio l’autenticità di fatti confermati da una riprova che è sempre stata considerata, da quando esistono al mondo una giustizia e dei giudici, come decisiva e irrefutabile: la confessione degli accusati”.

Nenni Segretario del PSI da “l’Avanti!” del 6 marzo 1953.”La morte di Stalin priva l’Unione Sovietica del suo Capo e i lavoratori di tutto il mondo di una guida ferma e sicura. Stalin entra nella storia avendo dietro di sé una mole imponente di lavoro e di opere. Egli è stato l’organizzatore dell’Unione Sovietica dopo che la rivoluzione d’ottobre aveva scrollato dalle fondamenta la vecchia società russa. E quando lo Stato socialista ha dovuto affrontare la prova tremenda della guerra, che Stalin aveva tentato con ogni mezzo di evitare, si è visto che egli aveva costruito non sulle sabbie dell’utopia ma sul granito.Con la certezza che l’opera di Stalin sarà portata a compimento, con profonda commozione noi socialisti ci inchiniamo di fronte alla salma del successore e continuatore di Lenin, esprimendo al governo sovietico e ai popoli sovietici le nostre profonde condoglianze”.”Nessuno tra i reggitori di popoli ha lasciato dietro di sé, morendo, il vuoto che lascia il compagno Stalin. Da ieri manca qualcosa all’equilibrio del mondo. In questa constatazione, che è comune a tutti, amici e avversari, è il riconoscimento unanime della grande personalità che scompare (…)

l’Avanti! del 7 marzo 1953.Ogni uomo in buona fede deve correggere l’errore di credere che Stalin fosse un dittatore sostenuto da un sistema di forza (…)

l’Avanti! del 15 marzo 1953.(dalla commemorazione tenuta alla Camera dei deputati).”E’ confermato clamorosamente che Stalin non si reggeva su di un sistema di violenza tirannica ma sulla adesione dei popoli sovietici”.

l’Avanti! del 12 luglio 1952.”L’assegnazione ad un italiano del premio internazionale per il consolidamento della pace, intitolato al nome del vostro grande capo Giuseppe Stalin, è qualcosa di più che un onore (…)”.

l’Avanti! del 3 agosto 1952(per il conferimento del Premio Stalin” per la pace).”Stalin, nell’atto in cui prendevo congedo da lui, mi disse, battendomi una mano sulla spalla: `Continuate, compagno Nenni, il vostro utile lavoro”’.

Krusciov Segretario generale del Partito comunista sovietico e autore del famigerato “Rapporto segreto” al XX Congresso del PCUS nel 1956.”I `Problemi economici del socialismo nell’URSS’ del compagno Stalin rappresentano un nuovo, inestimabile contributo alla teoria del marxismo-leninismo. Il compagno Stalin, sviluppando in modo creativo la scienza marxista-leninista, ha elaborato per il partito e per il popolo sovietico la teoria del carattere delle leggi economiche del capitalismo contemporaneo e del socialismo, la teoria delle condizioni che consentono di attuare il passaggio dal socialismo al comunismo (…)I capi del Partito, Lenin e Stalin, hanno sempre avuto cura di conservare la purezza delle file del partito. I nemici del partito, i traditori trotzkisti-bukariniani, hanno cercato più volte di portare la divisione nelle file del partito e indebolirne l’unità. Il nostro partito, sotto al guida di Stalin, ha fatto fallire tutti i tentativi dei nemici del leninismo di infrangere l’unità delle file del partito (…)Evviva il saggio capo del partito e del popolo, l’animatore e l’organizzatore di tutte le nostre vittorie, il compagno Stalin!”(al XIX Congresso del PCUS – Mosca, ottobre 1952)

Bulganin Capo del governo russo.”Il nostro Partito è arrivato al suo XIX Congresso unito; strettamente raggruppato intorno al CC leninista-staliniano, attorno al compagno Stalin. Viva la grande, invincibile bandiera del nostro Partito, la bandiera di Lenin e di Stalin. Viva la nostra guida ed educatore, il grande Stalin”.(al XIX Congresso del PCUS – Mosca, ottobre 1952)

Molotov Ministro degli esteri russo.”Il nome del capo del nostro Partito, il nome di Stalin esprime le migliori speranze ed aspirazioni di tutta l’umanità progressiva. Viva il Partito di Lenin e di Stalin. Possa il nostro caro e grande Stalin vivere in buona salute per molti anni. Gloria al compagno Stalin, grande capo del Partito e del popolo. Viva il caro Stalin!”(al XIX Congresso del PCUS – Mosca, ottobre 1952)

Mikoyan Vice presidente del Consiglio dei ministri sovietico.”Il nostro potente partito, riunito nel suo XIX Congresso, rende dovuto omaggio all’uomo che ci ha educati, che ci ha organizzati, che ci ha guidati attraverso tutte le difficoltà e le prove e che ci conduce con sicurezza verso il completo trionfo del comunismo; rende omaggio al genio di Stalin, al grande edificatore del comunismo.Il compagno Stalin illumina le nostre vite con la vivida luce della scienza. Egli ci dona un programma di azione e guida i nostri vittoriosi sforzi verso l’edificazione del comunismo. Gloria al grande Stalin!”(al XIX Congresso del PCUS – Mosca, ottobre 1952)

Pravda – in occasione del settantesimo compleanno di Stalin”Il compagno Stalin ha sviluppato ed elevato la teoria marxista-leninista ad una altezza senza precedenti (…) Il compagno Stalin è il possente continuatore della causa di Lenin. Il compagno Stalin è Lenin stesso. Il compagno Stalin è il possente architetto del comunismo”.

Malenkov Ministro sovietico per le centrali elettriche.”(…) Innanzi tutto al nostro capo e maestro, compagno Stalin, il quale ha sostenuto l’unità leninista del partito, il partito deve la incrollabile unità delle sue file”.”(…) Quanto a quei paesi `liberi’ come la Grecia, la Turchia e la Jugoslavia, essi sono già stati trasformati in colonie americane: i dirigenti della Jugoslavia – tutti questi Tito, Karleli, Rankovic, Djilas, Pijade e soci – sono da molto tempo agenti americani, che hanno compiuto atti spionistici e di sabotaggio contro l’Urss e i paesi di democrazia popolare obbedendo agli ordini dei loro padroni americani”.

dal rapporto sulla attività del CC del PCUS, pronunciato il 5 ottobre 1952).”(…) ha finito il glorioso cammino della sua vita il nostro Maestro e Capo, il più grande genio dell’umanità, Giuseppe Vissarionovic Stalin.”(…) la causa di Stalin vivrà nei secoli ed i posteri grati glorificheranno il nome di Stalin come facciamo ora noi tutti”.(dall’elogio funebre di Stalin pronunciato il 9 marzo 1953 nella Piazza Rossa di Mosca)

Suslov membro del Presidium del CC del PCUS.”Il partito di Lenin e di Stalin ha percorso vittoriosamente questo cammino, grazie al fatto che il nostro partito e tutto il popolo sovietico, con inflessibile volontà e grande saggezza, sono stati guidati lungo la via leninista dal genio dell’umanità, dal nostro amato capo e maestro, il compagno Stalin”.(al XIX Congresso del PCUS – Mosca, ottobre 1952.)

Thorez Segretario del Partito comunista francese.”I nemici del popolo e i loro vari agenti fingono di schernire ciò che loro chiamano il `culto di un uomo solo’ (…) non passa giorno in cui questi scellerati non lancino insulti e accuse contro Stalin, il migliore degli uomini, il primo dei combattenti per la libertà e la pace, il gigante del pensiero e dell’azione rivoluzionaria”.(da “l’Humanité” del 22 dicembre 1949)

Duclos Vice segretario del Partito comunista francese.”I comunisti francesi sapranno restare fedeli ai principi staliniani del partito, della lotta implacabile contro le deviazioni della linea marxista-leninista (…) Gloria immortale a Stalin, guida amata dei lavoratori di tutti i paesi, architetto del comunismo! La sua memoria sarà eternamente nei nostri cuori. I suoi insegnamenti illumineranno sempre il nostro cammino (…) Compagno Stalin, i comunisti francesi saranno degni di Voi”.(da “l’Unità” del 7 marzo 1953)

Ulbricht Segretario del Partito comunista della Germania orientale.”Stalin ha continuato l’opera di Lenin e l’ha portata a nuove elevate sfere di scienza e di sviluppo sociali”.(da “Il testamento del Grande Stalin”, su tutti i giornali della Germania Est dell’8 marzo 1953)

Scoccimarro membro del CC del PCI.”Scompare con Stalin un gigante del pensiero e dell’azione, una di quelle figure che hanno impresso un’orma che nessuno potrà cancellare. E la sua vita appare a tal punto grandiosa e prestigiosa da colpire non soltanto l’intelligenza ma anche l’immaginazione degli uomini (…)Il suo spirito, il suo pensiero e la sua volontà sopravvivono ora nei discepoli da lui formati, che continueranno la sua opera e come lui dovranno lottare per la difesa della pace”.(Commemorazione di Stalin al Senato, da “l’Unità” del 7 marzo 1953)

Fa senso leggere dichiarazioni come queste che esaltano un criminale come l’Umanità non aveva mai conosciuto.

E fa senso che i giornali e i partiti che lo hanno fatto siano ancora oggi seguiti e riveriti da moltitudini di sprovveduti che col loro comportamento perpetuano i crimini commessi.

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STALIN NE UCCISE IL TRIPLO

Il segretario di Rifondazione Comunista è presidente della Camera dei Deputati ha dedicato la sua elezione «alle operaie e agli operai» italiani. Chissà se aveva in mente anche Antonio Pirz con la moglie Clara e i figli Carlo e Bruno, Ernani Civalleri, Lino Manservigi, Arturo Canzi, Ubaldo Della Balda, Guido Garzera. Ha concluso il discorso d’insediamento con l’invito di Piero Calamandrei ai giovani a recarsi in pellegrinaggio nei luoghi in cui è nata la Costituzione, «dovunque un italiano è morto per la libertà».

Chissà quando nell’elenco di questi laici sacrari verranno incluse le fosse comuni di Butovo e Komunarka.

Nomi che non dicono nulla? Non c’è da stupirsene. Sono infatti oggetto della più tenace, accanita, furiosa rimozione della memoria praticata in Italia negli ultimi settant’anni. I nomi di persona appartengono al lungo elenco di operai comunisti uccisi in Unione Sovietica dai comunisti. Quelli di luogo indicano due dei cimiteri nei dintorni di Mosca dove molti di loro sono stati gettati, senza un sasso qualsiasi che li ricordi. Altri sono sepolti in Siberia, nella Kolyma, chissà dove. Già negli anni Settanta Roy Medvedev – storico comunista sovietico – aveva spiegato che ha ucciso più comunisti italiani Stalin di Mussolini. Ma chi leggeva quelle cose allora? Il povero Dante Corneli, uno dei pochi scampati all’”odissea rossa”, dovette bussare a infinite porte prima di vedere le sue memorie stampate da un editore microscopico.

LE STORIE DIETRO I NUMERI

Oggi forse qualcosa sta cambiando, se un libro come Italiani nei lager di Stalin di Elena Dundovich e Francesca Gori viene pubblicato da un maître à penser del calibro di Laterza. È una decina d’anni che la Dundovich fruga negli archivi russi alla ricerca di documenti sulla sorte dei nostri emigrati; il risultato è una ricostruzione impressionante della storia dei circa 1.020 italiani (su 4.000 allora residenti nel paese) in diverse misure raggiunti dalla repressione comunista. Almeno 110 furono fucilati e 140 finirono nel Gulag. Oltre la metà vennero deportati durante la guerra perché, anche se da tempo cittadini sovietici, provenivano da un paese nemico.

Molti che avevano fatto piccole fortune come agricoltori li avevano preceduti negli anni Trenta, durante l’epurazione dei kulaki. Ma le cifre dicono poco; dietro ogni numero c’è una storia. Antonio Pirz, emigrato prima negli Stati Uniti, era poi approdato in Crimea «incantato dal fascino del mito dell’Urss e delle conquiste del bolscevismo». Angela Juren, Natale Premoli, Giuseppe Venini avevano conosciuto le galere fasciste. Civalleri e Manservigi erano stati fra i protagonisti dell’occupazione delle fabbriche a Torino nel 1920. Canzi, Della Blada e Garzera erano semplici operai, mandati a Mosca dalla loro azienda, nel quadro di uno dei tanti accordi tra comunisti sovietici e fascisti italiani. I pochi sopravvissuti non hanno trovato orecchie disposte ad ascoltare le loro storie; e non pochi fra loro hanno preferito tacere, per non essere ulteriormente perseguitati in patria.

Qualcuno si ostina a credere che sia stata tutta colpa di Stalin, «i comunisti italiani furono diversi» (Paolo Mieli, Corriere della Sera, 2 ottobre 2003). Carnefici e vittime. I crimini del Pci in Unione Sovietica (Mondadori), ultima fatica di Giancarlo Lehner e Francesco Bigazzi – altri due storici che da tempo hanno dedicato le loro ricerche all’argomento – spazza ogni dubbio. Il Partito comunista d’Italia fu complice consapevole dei crimini staliniani.

Paolo Robotti, cognato di Togliatti, presidente del circolo degli emigrati italiani in Urss, rivendicò orgogliosamente davanti all’inquisitore – quando fu il suo turno di cadere in disgrazia – la propria attività delatoria: «Nel corso del mio lavoro, come capo del circolo degli emigrati politici, smascherai spesso dei trotzkisti e le loro conversazioni controrivoluzionarie-trotzkiste e varie volte scrissi note e relazioni sui loro interventi nelle riunioni degli emigrati politici italiani». I “trotzkisti”, naturalmente, altro non erano che buoni compagni, che ingenuamente avevano pensato che al circolo italiano si potesse dire che la Russia comunista non era proprio quel paradiso che veniva dipinto. Ma i loro discorsi venivano regolarmente annotati da Robotti e dal suo braccio destro Antonio Roasio, e spalancavano ai malcapitati le porte della Lubianka o del Gulag. Naturalmente, con l’autorevole avallo di Palmiro Togliatti: «Questo rapporto – spiega lo stesso Robotti – prima di giungere alla polizia politica sovietica, veniva presentato al compagno Togliatti. Il compagno Togliatti, se non aveva modo di ingerirsi per quel che riguardava le schede di Rosaio, era, teoricamente, nelle condizioni di poter bloccare le denunce che gli provenivano dal circolo».

Calunnie controrivoluzionarie? Anche Einaudi, baluardo dell’ortodossia, sembra arrendersi all’evidenza. Ha pubblicato nientemeno che la Storia del Gulag di Oleg Chlevnjuk. Il primo studio che racconta l’universo concentrazionario sovietico non dalla parte delle vittime ma da quella degli aguzzini, basandosi sui documenti ufficiali del regime. Sono gli archivi ufficiali che censiscono, nel solo biennio 1937-38, 1,6 milioni di arrestati. È da lì che escono le osservazioni del terribile procuratore capo Vishinskij: chiede la condanna di funzionari che «nei loro uffici uccidevano con la violenza fisica quelli che si ostinavano a non firmare i verbali preparati in anticipo. A un imputato ruppero il naso con un uncino di ferro e cavarono gli occhi., due cittadini furono uccisi a colpi di martello sulla testa.». Sono sempre i faldoni del Cremlino a restituire l’imperturbabile replica di Stalin: «Si sa che tutti i servizi segreti borghesi ricorrono alle pressioni fisiche nei confronti dei rappresentanti del proletariato socialista, e per giunta vi ricorrono nelle forme più atroci. Ci si domanda perché i servizi segreti socialisti debbano essere più umani rispetto agli spietati agenti della borghesia, ai nemici giurati della classe operaia e dei kholkoziani. Il CC ritiene che il metodo della pressione fisica debba essere assolutamente adottato anche in futuro. In quanto metodo giusto e opportuno» (telegramma, gennaio 1939).

SPARANDO E PUGNALANDO

Per buona misura, segnaliamo anche l’uscita de Il libro nero del comunismo europeo, sorta di appendice del celebre Libro nero del comunismo, dedicato ad alcuni paesi europei trattati in modo marginale nel primo volume. Non riguarda direttamente il nostro argomento; ma è un buon antidoto per chi si volesse aggrappare all’estrema illusione che il terrore sia una peculiarità della storia russa. Ddr, Estonia, Romania, Bulgaria, Grecia: dappertutto la stessa litania di denunce, campi di rieducazione, “liquidazioni”: «La liquidazione comporta l’annientamento fisico di individui e gruppi. Mezzi: si può uccidere sparando, pugnalando, dando fuoco, facendo saltare in aria, strangolando, picchiando a morte, avvelenando, soffocando».

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IL PC E LE RIVOLTE NEI REGIMI COMUNISTI

Moti operai in Germania
I Moti operai del 1953 in Germania Est si svolsero nel giugno e luglio del 1953. Uno sciopero degli operai edili si trasformò in una rivolta contro il governo della Germania Est. A Berlino la rivolta venne schiacciata con la forza dal Gruppo delle Forze Sovietiche in Germania
Nel maggio 1953, il Politburo del Partito di Unità Socialista della Germania (SED) innalzò le quote di lavoro dell’industria tedesca orientale del 10 percento. Il 15 giugno, una sessantina di operai edili di Berlino Est iniziarono a scioperare quando i loro superiori annunciarono un taglio di stipendio in caso di mancato raggiungimento delle quote. La loro dimostrazione il giorno seguente fu la scintilla che causò lo scoppio delle proteste in tutta la Germania Est. Lo sciopero portò al blocco del lavoro e a proteste in praticamente tutti i centri industriali e le grandi città del Paese.

Le domande iniziali dei dimostranti, come il ripristino delle precedenti (e inferiori) quote di lavoro, si tramutarono in richieste politiche. I lavoratori chiesero le dimissioni del governo della Germania Est. Il governo, per contro, si rivolse all’Unione Sovietica, che schiacciò la rivolta con la forza militare.
Ancora oggi non è chiaro quante persone morirono durante le sollevazioni e per le condanne a morte che seguirono. Il numero ufficiale delle vittime è 51. Dopo l’analisi dei documenti resi accessibili a partire dal 1990, il numero di vittime sembrerebbe essere di almeno 125.
Malgrado l’intervento delle truppe sovietiche, l’ondata di scioperi e proteste non venne riportata facilmente sotto controllo. In più di 500 città e villaggi ci furono dimostrazioni anche dopo il 17 giugno. Il momento più alto delle proteste si ebbe a metà luglio.

L’Unità, l’organo del Partito Comunista Italiano, il 19 giugno 1953, dopo l’intervento dei carri armati sovietici a Berlino Est, approvò senza riserve la repressione definendo la rivolta un ‘complotto a opera degli statunitensi e di Adenauer’.

Rivolta Polonia
Gli operai di Poznań, in Polonia, insorsero il 28 giugno 1956 al grido di pane e libertà contro il regime oppressivo mantenuto dai sovietici. La rivolta fu repressa nel sangue con i carri armati dal generale sovietico Konstantin Rokossovsky, allora ministro della guerra polacco. Gli operai uccisi dai militari furono circa 100.
La rivolta diffuse un vivo fermento in tutta la Polonia, che si propagò anche in Ungheria sino a esplodere nella insurrezione del 23 ottobre. Per allontanare il pericolo di una sollevazione in Polonia, i russi furono costretti ad allentare le redini della dittatura aprendo qualche spiraglio di libertà nel Paese.
Furono liberati in quella circostanza, dagli insorti, il cardinale Stefan Wyszyński, nonché il dirigente comunista Władysław Gomułka, nel 1949 imprigionato sotto l’accusa di ‘titoismo’.

L’Unità approvò la repressione e in quei giorni scrisse:
«La responsabilità per il sangue versato ricade su un gruppo di spregevoli provocatori che hanno approfittato di una situazione temporanea di disagio in cui versavano Poznan e la Polonia»

Rivoluzione Ungherese
La Rivoluzione ungherese del 1956, nota anche come Insurrezione ungherese o semplicemente Rivolta ungherese, fu una sollevazione armata di spirito anti-sovietica scaturita nell’allora Ungheria socialista che durò dal 23 ottobre al 10 – 11 novembre 1956. Inizialmente contrastata dall’ÁVH ungherese (Államvédelmi Hatóság, ‘Autorità per la Protezione dello Stato’) venne alla fine duramente repressa dall’intervento armato delle truppe sovietiche. Morirono circa 2.652 Ungheresi (di entrambe le parti, ovvero pro e contro la rivoluzione) e 720 soldati sovietici. I feriti furono molte migliaia e circa 250.000 (circa il 3% della popolazione dell’Ungheria) furono gli Ungheresi che lasciarono il proprio Paese rifugiandosi in Occidente. La rivoluzione portò a una significativa caduta del sostegno alle idee del comunismo nelle nazioni occidentali.

Il Partito comunista ungherese approfittò della Prima Conferenza mondiale dei partiti comunisti, che si tenne a Mosca nel novembre 1957, per far votare la condanna a morte di Nagy da tutti i dirigenti comunisti presenti, fra cui Maurice Thorez e Palmiro Togliatti, con l’unica eccezione del polacco Gomulka. Nagy fu condannato a morte e impiccato il 16 giugno 1958.

Palmiro Togliatti disse: “È mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della cività tutti i popoli“.

Giorgio Napolitano attuale Presidente della Repubblica italiano, (nel 1956 responsabile della commissione meridionale del Comitato Centrale del PCI) condannò come controrivoluzionari gli insorti ungheresi.

L’Unità si arrivò persino a definire gli operai insorti “teppisti” e “spregevoli provocatori” giustificando l’intervento delle truppe sovietiche sostenendo invece che si trattasse di un elemento di “stabilizzazione internazionale” e di un “contributo alla pace nel mondo“.

Luigi Longo sostenne la tesi della rivolta fascista: “L’esercito sovietico è intervenuto in Ungheria allo scopo di ristabilire l’ordine turbato dal movimento rivoluzionario che aveva lo scopo di distruggere e annullare le conquiste dei lavoratori…“.

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IL PC E LE RIVOLTE NEI REGIMI COMUNISTI

Moti operai in Germania
I Moti operai del 1953 in Germania Est si svolsero nel giugno e luglio del 1953. Uno sciopero degli operai edili si trasformò in una rivolta contro il governo della Germania Est. A Berlino la rivolta venne schiacciata con la forza dal Gruppo delle Forze Sovietiche in Germania
Nel maggio 1953, il Politburo del Partito di Unità Socialista della Germania (SED) innalzò le quote di lavoro dell’industria tedesca orientale del 10 percento. Il 15 giugno, una sessantina di operai edili di Berlino Est iniziarono a scioperare quando i loro superiori annunciarono un taglio di stipendio in caso di mancato raggiungimento delle quote. La loro dimostrazione il giorno seguente fu la scintilla che causò lo scoppio delle proteste in tutta la Germania Est. Lo sciopero portò al blocco del lavoro e a proteste in praticamente tutti i centri industriali e le grandi città del Paese.

Le domande iniziali dei dimostranti, come il ripristino delle precedenti (e inferiori) quote di lavoro, si tramutarono in richieste politiche. I lavoratori chiesero le dimissioni del governo della Germania Est. Il governo, per contro, si rivolse all’Unione Sovietica, che schiacciò la rivolta con la forza militare.
Ancora oggi non è chiaro quante persone morirono durante le sollevazioni e per le condanne a morte che seguirono. Il numero ufficiale delle vittime è 51. Dopo l’analisi dei documenti resi accessibili a partire dal 1990, il numero di vittime sembrerebbe essere di almeno 125.
Malgrado l’intervento delle truppe sovietiche, l’ondata di scioperi e proteste non venne riportata facilmente sotto controllo. In più di 500 città e villaggi ci furono dimostrazioni anche dopo il 17 giugno. Il momento più alto delle proteste si ebbe a metà luglio.

L’Unità, l’organo del Partito Comunista Italiano, il 19 giugno 1953, dopo l’intervento dei carri armati sovietici a Berlino Est, approvò senza riserve la repressione definendo la rivolta un ‘complotto a opera degli statunitensi e di Adenauer’.

Rivolta Polonia
Gli operai di Poznań, in Polonia, insorsero il 28 giugno 1956 al grido di pane e libertà contro il regime oppressivo mantenuto dai sovietici. La rivolta fu repressa nel sangue con i carri armati dal generale sovietico Konstantin Rokossovsky, allora ministro della guerra polacco. Gli operai uccisi dai militari furono circa 100.
La rivolta diffuse un vivo fermento in tutta la Polonia, che si propagò anche in Ungheria sino a esplodere nella insurrezione del 23 ottobre. Per allontanare il pericolo di una sollevazione in Polonia, i russi furono costretti ad allentare le redini della dittatura aprendo qualche spiraglio di libertà nel Paese.
Furono liberati in quella circostanza, dagli insorti, il cardinale Stefan Wyszyński, nonché il dirigente comunista Władysław Gomułka, nel 1949 imprigionato sotto l’accusa di ‘titoismo’.

L’Unità approvò la repressione e in quei giorni scrisse:
«La responsabilità per il sangue versato ricade su un gruppo di spregevoli provocatori che hanno approfittato di una situazione temporanea di disagio in cui versavano Poznan e la Polonia»

Rivoluzione Ungherese
La Rivoluzione ungherese del 1956, nota anche come Insurrezione ungherese o semplicemente Rivolta ungherese, fu una sollevazione armata di spirito anti-sovietica scaturita nell’allora Ungheria socialista che durò dal 23 ottobre al 10 – 11 novembre 1956. Inizialmente contrastata dall’ÁVH ungherese (Államvédelmi Hatóság, ‘Autorità per la Protezione dello Stato’) venne alla fine duramente repressa dall’intervento armato delle truppe sovietiche. Morirono circa 2.652 Ungheresi (di entrambe le parti, ovvero pro e contro la rivoluzione) e 720 soldati sovietici. I feriti furono molte migliaia e circa 250.000 (circa il 3% della popolazione dell’Ungheria) furono gli Ungheresi che lasciarono il proprio Paese rifugiandosi in Occidente. La rivoluzione portò a una significativa caduta del sostegno alle idee del comunismo nelle nazioni occidentali.

Il Partito comunista ungherese approfittò della Prima Conferenza mondiale dei partiti comunisti, che si tenne a Mosca nel novembre 1957, per far votare la condanna a morte di Nagy da tutti i dirigenti comunisti presenti, fra cui Maurice Thorez e Palmiro Togliatti, con l’unica eccezione del polacco Gomulka. Nagy fu condannato a morte e impiccato il 16 giugno 1958.

Palmiro Togliatti disse: “È mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della cività tutti i popoli“.

Giorgio Napolitano attuale Presidente della Repubblica italiano, (nel 1956 responsabile della commissione meridionale del Comitato Centrale del PCI) condannò come controrivoluzionari gli insorti ungheresi.

L’Unità si arrivò persino a definire gli operai insorti “teppisti” e “spregevoli provocatori” giustificando l’intervento delle truppe sovietiche sostenendo invece che si trattasse di un elemento di “stabilizzazione internazionale” e di un “contributo alla pace nel mondo“.

Luigi Longo sostenne la tesi della rivolta fascista: “L’esercito sovietico è intervenuto in Ungheria allo scopo di ristabilire l’ordine turbato dal movimento rivoluzionario che aveva lo scopo di distruggere e annullare le conquiste dei lavoratori…“.

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YOUGOSLAVIA: UN VESCOVO EROICO

  • Al termine della Seconda Guerra Mondiale, ci fu un nuovo ribaltamento politico, infatti l’8 maggio 1945 entrarono a Zagabria i partigiani comunisti di Tito (Josip Broz – 1892-1984), i quali cominciarono una lotta sistematica contro le attività religiose; fu istituita l’OZNA polizia segreta comunista, che arrestò, fece processare e condannare a morte migliaia di cittadini, colpevoli di non simpatizzare con il nuovo regime ateo.

    Per questo molti sacerdoti cattolici e alcuni vescovi, furono imprigionati e il 17 maggio 1945, toccò anche all’arcivescovo di Zagabria Stepinac, che però fu liberato il successivo 3 giugno per l’intervento di Tito, il quale aveva uno scopo, chiese al presule di staccarsi da Roma e di creare una Chiesa nazionale croata.

    La risposta dell’arcivescovo fu dura e ferma, quindi ripresero le persecuzioni contro la Chiesa Cattolica: furono uccisi i vescovi di Dubrovnik e Krizcevi; condannato a 12 anni di carcere quello di Mostar, arrestati quelli di Krk e Spalato; espulso da Zagabria l’inviato speciale del Vaticano; condannati a morte senza processo 369 sacerdoti; confiscati i beni della Chiesa.

    L’arcivescovo Stepinac il 22 settembre 1945 fece pubblicare una lettera collettiva dell’episcopato croato, che denunciava le ingiustizie subite dalla Chiesa, auspicando nel contempo un Concordato tra Stato e Chiesa. Il regime comunista reagì furiosamente, Stepinac fu arrestato il 18 settembre 1946 e subì un processo-farsa messo su con false testimonianze e calunnie, svoltosi a Zagabria fra il 30 settembre ed il 10 ottobre.
    L’11 ottobre l’arcivescovo venne condannato a sedici anni di lavori forzati ed alla perdita dei diritti civili, anche per cinque anni dopo la fine della condanna; la sua colpa agli occhi del regime, in realtà fu il rifiuto di organizzare una Chiesa nazionale.
    Il 19 ottobre 1946 fu rinchiuso nel carcere di Lepoglava in completo isolamento, fino al 5 dicembre 1951; gli era consentito solo la celebrazione della Messa e la lettura di libri religiosi; poi alla fine del 1951 venne confinato nel villaggio natio di Krasic, sorvegliato dalla polizia, ospitato nella parrocchia, senza esercitare il ministero episcopale.

    Il 12 gennaio 1953 papa Pio XII lo creò cardinale, deplorando pubblicamente il regime che gli impediva di recarsi a Roma per la cerimonia, pena il non ritorno in Patria. A seguito di ciò il governo di Tito, ruppe ogni rapporto con la S. Sede, instaurando di fatto anche in Jugoslavia, quella che venne definita “Chiesa del silenzio” dei Paesi comunisti.

    Nel 1956 gli venne fatta conoscere la lettera apostolica, con la quale papa Pacelli lodava la fede eroica dei cardinali Mindszenty in Ungheria, Wyszynski in Polonia, Stepinac in Jugoslavia, vittime della persecuzione comunista atea, esortandoli a perseverare nella loro testimonianza.
    L’arcivescovo disse al parroco che l’ospitava: ”Se il papa chiede il martirio e rifiuta ogni trattativa col comunismo, allora tutto mi è chiaro”. Intanto già dal 1953 la malattia contratta nel carcere di Lepoglava, esplose in tutta la sua virulenza, con diversi disturbi, sopportati coraggiosamente e pazientemente: trombosi alle gambe, catarro bronchiale, polycitemia rubra vera, infiammazioni, forti dolori causati da un grosso calcolo alla vescica.
    Lo stato generale si aggravò e inaspettatamente egli morì il 10 febbraio 1960, pregando per i suoi persecutori; dopo la sua morte, la polizia ordinò che tutti i suoi organi venissero distrutti dopo l’autopsia, per evitare ogni forma di culto.

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    IL DOPOGUERRA IN URSS

    I campi di concentramento sovietici, attivi dal 1918, si moltiplicarono negli anni Trenta per le note repressioni ordinate da Stalin, ma anche negli anni del secondo conflitto mondiale, quando vi finirono milioni di prigionieri di guerra e con loro grandi masse di cittadini sovietici, deportati da intere regioni. In Crimea, per esempio, la popolazione era stata deportata perché non fu capace di resistere ai tedeschi. Furono comunque milioni i semplici cittadini deportati nei campi per i più svariati motivi.

    Nel 1937 fu stampato in Polonia il racconto di un sopravvissuto ad uno dei tanti campi sovietici: “[…] Il convoglio, per stimolare i ritardatari o quelli che non potevano lavorare per causa dell’esaurimento, si serviva del calcio del fucile e di un semplice bastone e bastonavano senza pietà tanto i simulatori che quelli che cascavano giù sotto il peso del lavoro […] Come castigo per diverse mancanze, e specialmente per quella di subordinazione, facevano spogliare i colpevoli e li facevano stare al gelo una mezz’ora ed anche di più […] Succedeva anche che gl’impazziti si tagliassero tutta la mano destra”.

    Alla fine degli anni Quaranta l’O.N.U. raccolse varie testimonianze di cittadini sovietici reclusi in precedenza nei campi di lavoro forzato: “I prigionieri venivano picchiati sul lavoro e nei dormitori, picchiati con i pugni, con bastoni, e con i calci dei fucili […] ogni tanto le guardie uccidevano dei prigionieri. Ci sono stati dei casi in cui decine di prigionieri venivano bastonati a morte […] il ferirsi e mutilarsi volontariamente continuò. In questa maniera i prigionieri cercavano di sfuggire al lavoro e di avere un po’ di riposo all’ospedale […] dal 1930 in poi l’alimentazione peggiorò rapidamente. Prima era raro che i prigionieri soffrissero la fame […] Così, a volte, quelli che si rifiutavano di lavorare, quelli che lavoravano male e quelli che sistematicamente non arrivavano a fare il lavoro assegnato, venivano riuniti e fucilati a gruppi di 30 o 40, per scoraggiare gli altri dal simulare malattia […] C’erano inoltre i campi d’isolamento dove si tenevano i prigionieri che erano puniti per mancanze nel campo; queste includevano il rifiutare o non fare tutto il lavoro. Nei campi d’isolamento i prigionieri erano tenuti in condizioni terribili e quasi del tutto privi di cibo; la maggioranza dei puniti generalmente moriva […] Nel tracciato Vym-Ust Ukhta lavoravano circa 20.000 persone; nuovi prigionieri rimpiazzavano via via i morti. Circa 9.000 di loro morirono […] Sapevo che nessuno poteva sentire le mie sofferenze al di là delle pareti dell’ufficio del Procuratore, e molto depresso, dopo 10 giorni passati sempre seduto su una sedia, firmai tutto quello che il giudice voleva […] Di un gruppo di 1.000 caucasiani, colà inviato, alla fine dell’inverno ne sopravvivevano solo 10 […] Durante l’estate nell’isola di Popov venivano scavati dei grandi crateri per 2.000 o 3.000 persone ognuno. Durante l’inverno li riempivano di cadaveri, l’estate dopo scavavano degli altri crateri”.

    La vita all’interno dei gulag era condizionata dal terrore: ad esempio, in uno dei tanti campi sparsi sul territorio, il comandante a titolo di avvertimento decise di fucilare trecento prigionieri; furono uccisi tutti con un colpo alla testa. Oppure nel campo di Vorkuta, millecinquecento prigionieri vennero liquidati con il solito colpo alla nuca, mentre entravano in una capanna, convinti di andare a fare il bagno.

    I prigionieri vecchi e malati, comunque inutilizzabili nei vari campi di lavoro, venivano eliminati con un sistema che nulla aveva da invidiare a quelli utilizzati dai nazisti con gli ebrei: uomini e donne venivano ammassati su vecchie navi che poi venivano fatte affondare nel Mar Bianco, portando con sé tutti gli sventurati.(da I cittadini sovietici nei Gulag)

    Durante l’inizio degli anni ’90 si assiste al crollo dei regimi sostenuti da Mosca in tutta Europa.

    L’inizio della fine era cominciato in Ungheria.

    Fra Ungheria e Austria correva in mezzo ai campi di grano un confine elettrificato, che in pochi sapevano non essere funzionante nelle giornate ventose per i troppo frequenti falsi allarmi. Era una parte del cosiddetto “Sipario di Ferro”, quello che era calato da Stettino a Trieste, secondo le parole di Churchill.

    Ha ricordato Beppe Del Colle nel decennale del caduta del Muro: “Allo scadere dell’estate del 1989 (il 10 settembre N.d.R.) il Governo ungherese […] aprì il suo confine […] e fu di là che nei mesi successivi cominciò a passare, ingrossandosi ogni giorno, il fiume dei tedesco-orientali che emigravano nella Germania occidentale, nella più colossale, ingenua e spontanea “votazione con i piedi” del ventesimo secolo.“

    Un bell’articolo, che non metto per ragioni di copyright, è visiblie al link sottostante:LA TRAGEDIA DELLA INTELLIGHENZIA IN URSS DA STALIN AGLI ANNI 60.

    Vedi anche il capitolo ‘L’URSS di Lenin e Stalin’.

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    LA VOLANTE ROSSA

    Abbiamo appena visto come la faccia ufficiale del PCI cercasse col passare degli anni di mostrare un volto più umano.

    Parallelamente, però, vi era un’altra realtà che nel corso degli anni prenderà molti nomi e molte forme. Il filo logico è sempre lo stesso: perpetuare il ‘mito’ della Resistenza e intimidire (o, se possibile, eliminare) tutti quelli che per qualche motivo potrebbero incrinare tale mito che fornisce legittimità al partito guida.

    La prima formazione è la ‘volante rossa’. Riporto, pari pari, quanto scritto nell’osservatorio sui delitti del comunismo in Italia, La volante rossa.

    «Il gruppo terroristico denominato Volante Rossa agì a Milano lungo un arco di tempo di quasi quattro anni, dall’estate del 1945 al febbraio del 1949. Fu costituito ad opera di partigiani comunisti provenienti dalle Brigate garibaldine 116a, 117a e 118a. Il suo fondatore e capo fu Giulio Paggio, originario di Saronno, nome di battaglia Alvaro.

    Nonostante il grande scalpore che le azioni di tale formazione terroristica fecero, e di cui parleremo, su di essa in questi cinquant’anni è calata una cortina di silenzio, rotta soltanto nel 1977 da un saggio di Cesare Bermani pubblicato sulla rivista “Primo Maggio” e nel maggio 1996 da un libro di Carlo Guerriero e Fausto Rondinelli edito da Datanews dal titolo “La Volante Rossa”.

    Si tratta di due saggi opera di autori di sinistra, ampiamente giustificazionisti, ai quali peraltro va riconosciuto il merito di aver rotto un vero e proprio muro di omertà che il Partito Comunista prima e il PDS poi avevano elevato intorno a questa scomoda ed ingombrante storia.

    In particolare il secondo saggio ha una strana intonazione: troppo fazioso per apparire come una sera ricostruzione storica, troppo obiettivo per essere considerato solo un’opera apologetica. Descrive ed enumera i delitti, indifendibili, commessi dagli aderenti alla Volante Rossa, ma si conclude con queste parole: “Nei decenni successivi il ricordo della formazione di ex partigiani milanesi era destinato a riaffiorare ogni volta che mobilitazioni antifasciste ed operaie tornavano a far salire la tensione nelle aree industriali del nord: segno evidente che il valore, anche leggendario, che quella lontana esperienza di lotta aveva assunto non era stato affatto intaccato né dalle strumentalizzazioni né dalla rimozione operata nei suoi confronti da parte del PCI.”

    Deve destare preoccupazione il fatto che nel 1996 vi sia ancora qualcuno che attribuisca ai crimini della Volante Rossa un valore, anche leggendario

    Ma vediamo quali furono questi crimini, quasi tutti commessi a Milano.

    gennaio 1947 – Omicidio di Eva Macciacchini e di Brunilde Tanzi, simpatizzanti di movimenti di destra.

    14 marzo 1947 – Omicidio del giornalista Franco De Agazio, direttore della rivista “Meridiano d’Italia”.

    16 giugno 1947 – Assalto ad un bar di via Pacini 32, ritenuto luogo di ritrovo di simpatizzanti di destra, a colpi di sassi e di pistola.

    6 luglio 1947 – Attentato contro l’abitazione di Fulvio Mazzetti, simpatizzante di destra, in Corso Lodi 33. La bomba a mano lanciata contro l’abitazione rimbalza contro una zanzariera e ricade in strada, ove ferisce uno degli attentatori, Mario Gandini. L’altro si chiama Walter Veneri.

    10 luglio 1947 – Attentato contro la sede del settimanale missino “Rivolta Ideale”. Qui una quarantina di persone erano radunate per ascoltare una conferenza del professor Achille Cruciani. Due terroristi lanciarono una bomba nella sala con la miccia già accesa. Uno dei presenti la raccolse e la lanciò giù dalla finestra, ove esplose danneggiando il palazzo di via Agnello 10 e tre automobili.

    27 luglio 1947 – Un ordigno al plastico viene collocato all’interno di un cinema nel quale il professor Cruciani doveva tenere un’altra conferenza. La polizia lo ritrova prima che esploda.

    11 ottobre 1947 – Assalto alla sede del M.S.I. di via Santa Radegonda, che viene devastata. Numerosi missini presenti vengono feriti.

    29 ottobre 1947 – Al termine di una manifestazione indetta dalla Camera del Lavoro, viene assalita e distrutta la sede della rivista “Meridiano d’Italia”.

    4 novembre 1947 – Omicidio di Ferruccio Gatti, responsabile milanese del M.S.I., nella sua abitazione, in viale Gian Galeazzo 20.

    4 novembre 1947 – Tentato omicidio di Antonio Marchelli, segretario della sezione del M.S.I. di Lambrate.

    5 novembre 1947 – Omicidio, a Sesto San Giovanni, di Michele Petruccelli, aderente al Movimento “Uomo Qualunque”.

    12 novembre 1947 – Assalto alle sedi dell’Uomo Qualunque in Corso Italia, del M.S.I. in via Santa Radegonda e della rivista “Meridiano d’Italia”.

    13 novembre 1947 – A bordo di tre camion i terroristi della Volante Rossa si recano in via Monte Grappa e devastano la sede del Movimento Nazionale Democrazia Sociale.

    14 novembre 1947 – Irruzione nella sede del Partito Liberale Italiano in corso Venezia.

    27 novembre 1947 – Assalto alla Prefettura di Milano, insieme a centinaia di manifestanti che protestavano contro la sostituzione del Prefetto Troilo. Nella stessa giornata viene assalita la sede del M.S.I. e quella della RAI in corso Sempione.

    6 dicembre 1947 – Aggressione ad una guardia giurata della Breda, a Sesto San Giovanni.

    12 dicembre 1947 – Sequestro dell’ingegner Italo Tofanello, dirigente delle Acciaierie Falck, in via Natale Battaglia 29. Condotto in Piazza Duomo l’ingegnere viene costretto a spogliarsi e quindi viene rilasciato senza vestiti.

    10 aprile 1948 – Disordini durante un comizio del M.S.I. in piazza Belgioioso.

    25 aprile 1948 – Disordini durante una manifestazione non autorizzata a piazzale Loreto.

    15 luglio 1948 – Scontri con le Forze dell’Ordine durante l’occupazione degli stabilimenti Bezzi e Motta.

    13 ottobre 1948 – Aggressione ad alcuni dirigenti della Breda.

    27 gennaio 1949 – Omicidio di Felice Ghisalberti in via Lomazzo e del dottor Leonardo Massaza in piazza Leonardo da Vinci, ritenuti entrambi simpatizzanti di destra.

     

    L’elenco di questi crimini naturalmente rappresenta in modo assai sommario la vera attività della Volante Rossa. Si tratta degli episodi sicuramente attribuibili a questa formazione, mentre non compare una quantità di altre azioni che in quegli anni turbolenti furono commesse da estremisti di sinistra, quasi sicuramente appartenenti alla Volante Rossa, ma di cui non abbiamo documentazione certa.

    Circa l’epilogo del gruppo terroristico, nel 1951 fu celebrato il processo contro 32 membri della Volante Rossa, di cui 27 in carcere e 5 latitanti. I condannati furono 23, di cui 4 all’ergastolo.

    Dei 5 latitanti 3 sfuggirono all’arresto grazie all’aiuto del P.C.I. che li fece espatriare oltrecortina: Giulio Paggio e Paolo Finardi in Cecoslovacchia e Natale Burato in Unione Sovietica.

    Il 26 ottobre 1978 il neo-eletto Presidente della Repubblica Sandro Pertini firma il decreto di grazia per i 3 terroristi rifugiati all’estero. Ed ecco un elenco, ampiamente incompleto, degli appartenenti alla Volante Rossa:

    • Otello Alterchi (Otelin), elettricista, classe 1928;
    • Felice Arnè, nome di battaglia Ciro, operaio, classe 1930;
    • Giordano Biadigo (Tom), operaio, classe 1929;
    • Bruno Bonasio, elettricista, classe 1926;
    • Primo Borghini, custode della Casa del Popolo di Lambrate, classe 1920;
    • Mario Bosetti, classe 1926; – Natale Burato;
    • Luigi Canepari (Pipa), meccanico, classe 1925;
    • Camillo Cassis, idraulico, classe 1925;
    • Ennio Cattaneo, elettricista, classe 1930;
    • Domenico Cavuoto (Menguc), barista, classe 1930;
    • Giulio Cimpellin (Ciro), meccanico, classe 1920;
    • Ferdinando Clerici (Balilla), operaio, classe 1928;
    • Luigi Comini (Luisott), fotografo, classe 1925;
    • Walter Fasoli (Walter), disoccupato, classe 1917; – Paolo Finardi;
    • Mario Gandini;
    • Pietro Iani (Iani), idraulico, classe 1926;
    • Giacomo Lotteri (Loteri), meccanico, classe 1920;
    • Angelo Maria Magni, elettricista, classe 1926;
    • Sante Marchesi (Santino), radiotecnico, classe 1926;
    • Antonio Minafra (Missaglia), classe 1919;
    • Enrico Mondani, tipografo e segretario della sezione Lambrate del P.C.I., classe 1925;
    • Mario Mondani, meccanico, classe 1927;
    • Giulio Paggio (Alvaro);
    • Ettore Patrioli (Iaia), meccanico, classe 1926;
    • Carlo Reina, conciatore, classe 1926;
    • Emilio Tosato (Lietù), elettricista, classe 1929;
    • Ferruccio Tosi (Casso), elettricista, classe 1929;
    • Eligio Trincheri;
    • Angelo Vecchio (Tarzan), operaio, classe 1925;
    • Dante Vecchio (Tino), meccanico, classe 1917;
    • Walter Veneri;
    • Italo Zonato (Italo), meccanico, classe 1925.»
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    I PRIMI 10 ANNI

    Con l’inizio della Repubblica assistiamo a due fenomeni: l’inizio della corruzione che diventerà in pochi anni dilagante e lo sfascio morale del Paese che verrà portato avanti con rigore scientifico dalla sinistra capeggiata dal PCI.

    La DC che in teoria avrebbe dovuto opporsi e smilitarizzare il PCI era in realtà un enorme calderone in cui c’era dentro di tutto. L’unica cosa che mancava era una precisa linea strategica per risollevare il Paese. Assisteremo quindi in maniera sempre più sfacciata a lotte interne che nulla hanno a che vedere col bene dell’Italia, ma sono vere e proprie faide di potere, dove per potere si intende la possibilità di guadagni illeciti. Per non essere disturbati si arriverà quindi ad accordi sottobanco con la sinistra cercando di legarla al carro e con i comunisti, lasciandoli liberi di occupare i settori ritenuti poco redditizi (scuola, giustizia) e riconoscendo loro una parte del sistema tangenziale.

    Bisogna anche ricordare come gli avvenimenti della seconda guerra mondiale, che avevano visto l’Unione Sovietica dalla parte dei vincitori, avevano creato le condizioni migliori per dare credito alla sinistra .

    L’Unione Sovietica, con l’ausilio dei vari partiti comunisti, non si lasciò sfuggire la ghiotta possibilità. Con abile propaganda e con le dovute pressioni era riuscita sin dalla fine delle ostilità a costruire il mito del ‘mostro’ nazista e ad ingigantire l’apporto dato dai comunisti per la sua sconfitta.

    Per le ragioni che abbiamo già esaminato, la creazione del ‘mostro’ andava più che bene anche agli Alleati che così potevano distogliere l’attenzione mondiale dai loro crimini.

    Di fatto la conseguenza fu che larghe fette di intellettuali accettarono, per torna conto, viltà o altri motivi, il teorema che indicava il Comunismo come combattente per la libertà e squalificava chiunque osasse indicare i crimini commessi dai comunisti come, ‘fascista, ‘revisionista’, ‘reazionario’ o, peggio ancora, ‘bugiardo’.

    Costoro furono, e sono tutt’ora, i migliori alleati del comunismo e portano insieme ai comunisti la piena responsabilità di tutti i lutti che tale ideologia ha portato all’Umanità.

    Come descritto nel capitolo precedente, i primi dieci anni del dopoguerra hanno visto diverse crisi nel comunismo in Unione Sovietica.

    La ripercussione nel PCI non poteva che essere traumatica, non tanto nella dirigenza che conosceva bene la realtà dell’URSS, ma soprattutto nella base che era stata indottrinata a pensare all’URSS come al ‘paradiso sovietico’.

     

    Risultava quindi quanto meno strano che felici cittadini di tale ‘paradiso’ decidessero di rischiare la propria vita per contestarlo.

    Per risolvere questo inquietante interrogativo il partito con tutta la sua propaganda intervenne bollando i primi insorti come un ‘complotto’ americano, i secondi come ‘provocatori’ e, nel caso dell’Ungheria, come ‘teppisti’ e ‘provocatori’.

    Nel caso però dell’Ungheria c’era però la televisione, inaugurata un anno prima, che, anche se pochissimi avevano l’apparecchi, mostrava la realtà così com’era.

    Così, mentre la base del partito accettava ad occhi chiusi le balle dell’Unità e dei vertici del PCI, ci fu chi, tra gli intellettuali pretendeva un atteggiamento diverso e, preso atto del comportamento del partito, uscì allo scoperto con un manifesto di condanna.

    Aderiscono all’appello tra gli altri, Antonio Maccanico, Alberto Caracciolo, Paolo Spriano, Lucio Colletti, Renzo De Felice, Elio Petri, Mario Tronti, Alberto Ascir Rosa, Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, Delio Cantinori, Mario Socrate, Renzo Vespignani, Dario Puccini, Vezio Crisafulli, Giorgio Candeloro, Luciano Cafagna.

    La dirigenza del PCI riusci a tenere unito il partito solo usando la mano pesante con espulsioni a raffica e campagne diffamatorie nei confronti di quanti non credevano più al mito dell’Unione Sovietica.

    A fine anno si apre l’VIII congresso del PCI.

    Togliatti è coinvolto in una furiosa battaglia all’interno del suo partito. All’interno ci sono gruppi di intransigenti ma anche gruppi radicali che dopo i fatti d’Ungheria vorrebbero prendere le distanze dal comunismo russo. Mentre altri mettono in discussione la leadership dello stesso Togliatti. Infine diversi intellettuali dopo l’appoggio e la giustificazione che un Togliatti poco convincente aveva dato nei riguardi dell’invasione sovietica in Ungheria, abbandonano il partito sdegnati (rientreranno alla spicciolata più avanti).

    Il discorso di Togliatti inizia con l’analisi della situazione internazionale. Denuncia il ritorno aggressivo dell’imperialismo e la ripresa della guerra fredda e riconosce che gli «errati indirizzi politici seguiti nella costruzione di una società socialista» sono stati, per i comunisti italiani, «il fatto più importante» per spiegare ciò che in Ungheria è accaduto. Sottolinea il momento di difficoltà del movimento comunista, ammettendo che «la imitazione servile» del modello sovietico, «errata in linea di principio, doveva rivelarsi dannosa nella pratica» ed ha dato luogo, sia in Polonia che in Ungheria, a «difficoltà superflue, asprezze e squilibri pesanti». Togliatti conferma il «merito storico» avuto dall’Urss nella realizzazione della prima rivoluzione socialista e rivendica i grandi successi e la superiorità di quel sistema sociale, affermando: «Il posto che l’Unione Sovietica e il partito che la dirige occupa nel mondo socialista, di cui è l’asse e la forza suprema, è una realtà determinatasi storicamente e che non si può distruggere. Non vi è né Stato guida, né partito guida. La guida sono i nostri principi, gli interessi della classe operaia e del popolo italiano, la difesa permanente della pace e dell’indipendenza della nazione, i doveri della solidarietà internazionale. Seguendo questa guida, noi batteremo una strada del tutto nostra, che l’esempio e le esperienze dell’opera da titani che è stata compiuta e si compie nell’Unione Sovietica continueranno a illuminare».

    Non vi è ovviamente alcun accenno ai crimini di Stalin, ma anzi una allucinante esaltazione di Stalin e del regime da lui imposto che viene definito come un faro luminoso nella storia dell’Umanità.

    Davanti alla dura realtà, inconfutabile, di quanto era accaduto in Ungheria, la soluzione per Togliatti è quella di non considerare più l’Unione Sovietica come lo stato guida, ma guardarla unicamente come un grande esempio da seguire.

    Lo stesso Togliatti, per dimostrare la sua indipendenza dall’URSS, firmerà l’anno seguente la condanna a morte di Imre Nagy.

    Sempre nel 1957 verrà abolita la norma che imponeva a tutti i dirigenti che volevano fare carriera all’interno del partito, una visita obbligatoria, comprendente corsi di preparazione politica, nell’Unione Sovietica.

     

    Dopo la morte di Togliatti la diga cedette e la segreteria di Luigi Longo fu caratterizzata da un progressivo allontanamento da Mosca che culminò nel 1968 con la rottura consumata sull’invasione della Cecoslovacchia. La successiva segreteria di Berlinguer trasformò ulteriormente il PCI da partito che aveva rotto con Mosca a partito che si schiererà con il blocco occidentale (denuncia della natura aggressiva del Patto di Varsavia, adesione della CGIL alle organizzazioni sindacali occidentali, riconoscimento della Nato ed ingresso nel suo comitato politico).

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    IL PC E LE RIVOLTE NEI REGIMI COMUNISTI

    Moti operai in Germania
    I Moti operai del 1953 in Germania Est si svolsero nel giugno e luglio del 1953. Uno sciopero degli operai edili si trasformò in una rivolta contro il governo della Germania Est. A Berlino la rivolta venne schiacciata con la forza dal Gruppo delle Forze Sovietiche in Germania
    Nel maggio 1953, il Politburo del Partito di Unità Socialista della Germania (SED) innalzò le quote di lavoro dell’industria tedesca orientale del 10 percento. Il 15 giugno, una sessantina di operai edili di Berlino Est iniziarono a scioperare quando i loro superiori annunciarono un taglio di stipendio in caso di mancato raggiungimento delle quote. La loro dimostrazione il giorno seguente fu la scintilla che causò lo scoppio delle proteste in tutta la Germania Est. Lo sciopero portò al blocco del lavoro e a proteste in praticamente tutti i centri industriali e le grandi città del Paese.

    Le domande iniziali dei dimostranti, come il ripristino delle precedenti (e inferiori) quote di lavoro, si tramutarono in richieste politiche. I lavoratori chiesero le dimissioni del governo della Germania Est. Il governo, per contro, si rivolse all’Unione Sovietica, che schiacciò la rivolta con la forza militare.

    Ancora oggi non è chiaro quante persone morirono durante le sollevazioni e per le condanne a morte che seguirono. Il numero ufficiale delle vittime è 51. Dopo l’analisi dei documenti resi accessibili a partire dal 1990, il numero di vittime sembrerebbe essere di almeno 125.
    Malgrado l’intervento delle truppe sovietiche, l’ondata di scioperi e proteste non venne riportata facilmente sotto controllo. In più di 500 città e villaggi ci furono dimostrazioni anche dopo il 17 giugno. Il momento più alto delle proteste si ebbe a metà luglio.

     

    L’Unità, l’organo del Partito Comunista Italiano, il 19 giugno 1953, dopo l’intervento dei carri armati sovietici a Berlino Est, approvò senza riserve la repressione definendo la rivolta un ‘complotto a opera degli statunitensi e di Adenauer’.

    Rivolta Polonia

    Gli operai di Poznań, in Polonia, insorsero il 28 giugno 1956 al grido di pane e libertà contro il regime oppressivo mantenuto dai sovietici. La rivolta fu repressa nel sangue con i carri armati dal generale sovietico Konstantin Rokossovsky, allora ministro della guerra polacco. Gli operai uccisi dai militari furono circa 100.
    La rivolta diffuse un vivo fermento in tutta la Polonia, che si propagò anche in Ungheria sino a esplodere nella insurrezione del 23 ottobre. Per allontanare il pericolo di una sollevazione in Polonia, i russi furono costretti ad allentare le redini della dittatura aprendo qualche spiraglio di libertà nel Paese.
    Furono liberati in quella circostanza, dagli insorti, il cardinale Stefan Wyszyński, nonché il dirigente comunista Władysław Gomułka, nel 1949 imprigionato sotto l’accusa di ‘titoismo’.

    L’Unità approvò la repressione e in quei giorni scrisse:
    «La responsabilità per il sangue versato ricade su un gruppo di spregevoli provocatori che hanno approfittato di una situazione temporanea di disagio in cui versavano Poznan e la Polonia»

    Rivoluzione Ungherese
    La Rivoluzione ungherese del 1956, nota anche come Insurrezione ungherese o semplicemente Rivolta ungherese, fu una sollevazione armata di spirito anti-sovietica scaturita nell’allora Ungheria socialista che durò dal 23 ottobre al 10 – 11 novembre 1956. Inizialmente contrastata dall’ÁVH ungherese (Államvédelmi Hatóság, ‘Autorità per la Protezione dello Stato’) venne alla fine duramente repressa dall’intervento armato delle truppe sovietiche.

    Morirono circa 2.652 Ungheresi (di entrambe le parti, ovvero pro e contro la rivoluzione) e 720 soldati sovietici. I feriti furono molte migliaia e circa 250.000 (circa il 3% della popolazione dell’Ungheria) furono gli Ungheresi che lasciarono il proprio Paese rifugiandosi in Occidente. La rivoluzione portò a una significativa caduta del sostegno alle idee del comunismo nelle nazioni occidentali.

    Il Partito comunista ungherese approfittò della Prima Conferenza mondiale dei partiti comunisti, che si tenne a Mosca nel novembre 1957, per far votare la condanna a morte di Nagy da tutti i dirigenti comunisti presenti, fra cui Maurice Thorez e Palmiro Togliatti, con l’unica eccezione del polacco Gomulka. Nagy fu condannato a morte e impiccato il 16 giugno 1958.

    Palmiro Togliatti disse: “È mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della cività tutti i popoli“.

    Giorgio Napolitano attuale Presidente della Repubblica italiano, (nel 1956 responsabile della commissione meridionale del Comitato Centrale del PCI) condannò come controrivoluzionari gli insorti ungheresi.

    L’Unità si arrivò persino a definire gli operai insorti “teppisti” e “spregevoli provocatori” giustificando l’intervento delle truppe sovietiche sostenendo invece che si trattasse di un elemento di “stabilizzazione internazionale” e di un “contributo alla pace nel mondo“.

    Luigi Longo sostenne la tesi della rivolta fascista: “L’esercito sovietico è intervenuto in Ungheria allo scopo di ristabilire l’ordine turbato dal movimento rivoluzionario che aveva lo scopo di distruggere e annullare le conquiste dei lavoratori…“.

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    IL BIENNIO ROSSO

    di  Luciano Atticciati

    Il 1919 fu l’anno del forte spostamento a sinistra non solo in Italia, ma in tutta l’Europa. Gli orrori della guerra avevano spinto molti a rifiutare quello stato elitario “democratico borghese” che l’aveva prodotta e di cui le masse popolari avevano conosciuto enormi sofferenze. A questa tendenza aveva contribuito anche il cosiddetto ceto medio che aveva preso parte a diverse agitazioni, ma quando la sinistra assunse le posizioni più estremiste, indicando lo stato bolscevico russo come un modello da seguire, e riteneva di poter ricorrere anche ai metodi della violenza per raggiungere il suo fine, una parte notevole dell’opinione pubblica, specie del Nord dove si erano avuti i maggiori scontri del biennio rosso, iniziò a spostarsi a destra. Tale cambiamento venne rapidamente percepito da Benito Mussolini che si propose come un restauratore, sia pure poco ortodosso, dell’ordine pubblico.

    Il partito socialista aveva nel ’19 aderito alla Terza Internazionale che prevedeva espressamente il ricorso alla lotta armata, ed aveva assunto anche alcune iniziative in questo campo (costituzione di una “forza armata proletaria” al Consiglio Nazionale dell’aprile 1920) nel corso del biennio rosso. L’estremismo dei socialisti era forse più verbale che reale, tuttavia i suoi appelli ad una rivoluzione bolscevica in Italia scossero l’opinione pubblica, anche quella che per motivi sociali non era pregiudizialmente contraria alla sinistra. Filippo Turati al riguardo aveva espresso tutte le sue perplessità, e aveva previsto la reazione di una parte importante della società: “di tutte quelle classi medie, quelle piccole classi, quei ceti intellettuali, quegli uomini liberi che si avvicinavano a noi, che vedevano nella nostra ascensione la loro propria ascensione e la liberazione dell’uomo, e che noi con la minaccia della dittatura e del sangue gettiamo dalla parte opposta”. Scrisse alcuni anni dopo, nel 1922 il Corriere della Sera: “La violenza è quasi sempre un’arma che ferisce le mani di chi l’adopera: i socialisti che tirannegiavano bestialmente l’Emilia con la loro dittatura spavalda e coi loro tribunali rossi ne sanno qualcosa. Ne potrebbero sapere molto domani i fascisti, se con gli incendi e coi ferimenti credessero, a loro volta, di governare la regione liberata”.

    Il 1919 aveva visto un numero limitato di scontri fra fascisti e socialisti, molto più mumerosi erano risultati quelli fra arditi e nazionalisti da una parte contro i socialisti. Gli Arditi costituivano un gruppo che sfuggiva ad una facile collocazione politica, e che risentiva maggiormente di suggestioni emotive che di questioni di tipo strettamente politico. Gli Arditi comunque erano ovviamente orientati verso il nazionalismo, e risentivano molto della influenza di futuristi e dei dannunziani successivamente. Il gruppo politico futurista era sorto per iniziativa di Filippo Tommaso Marinetti,

    ( http://it.wikipedia.org/wiki/Filippo_Tommaso_Marinetti )

     un intellettuale anche lui difficilmente collocabile politicamente, ma che poteva essere considerato un anarchico nazionalista. Il programma futurista era fortemente anticlericale, patriota, e presentava anche delle istanze di tipo socialista, socializzazione delle terre, imposta progressiva, minimi salariali.

    Il primo importante episodio di violenza in quell’anno fu l’assalto all’Avanti. Se la responsabilità di tale episodio è da attribuirsi ai nazionalisti (arditi, futuristi, neo-nati fascisti), significativo è comunque che dalla sede del giornale furono esplosi diversi colpi di arma da fuoco, che provocarono fra l’altro la morte di un soldato posto a tutela dell’ordine pubblico. Lo scontro non aveva molto a che vedere con questioni di lotta sociale come nel periodo successivo dello squadrismo, ma si inseriva nel contrasto riguardante le questioni della guerra, e nel clima di ostilità nei confronti dei reduci tenuto dai socialisti e dalla sinistra in genere. Una testimonianza significativa sulla campagna di denigrazione nei confronti di chi aveva combattuto ci è stata fornita da Emilio Lussu, importante leader dell’antifascismo, nel suo scritto “marcia su Roma e dintorni”. Nei mesi successivi si verificarono nuovi scontri fra arditi e socialisti, sempre per responsabilità dei primi, ma anche l’uccisione di un paio di carabinieri ad opera degli anarchici.

    Nella seconda metà dell’anno iniziò lo scontro sociale più pesante. Nel luglio si ebbe un serie di scioperi e di saccheggi da parte di manifestanti che protestavano contro il carovita. Le proteste interessarono soprattutto le maggiori città del centro-nord, ebbero un carattere poco organizzato, tuttavia in alcune città i commercianti furono costretti a consegnare le loro merci alle locali camere del lavoro. I disordini furono duramente repressi dalle forze di polizia che provocarono la morte di una trentina di dimostranti e molte centinaia di arresti. Nello stesso mese si ebbe lo sciopero internazionalista a sostegno della Russia bolscevica che vide episodi di violenza sia da parte dei manifestanti sia da parte di gruppi di arditi.

    In ottobre lo scontro si spostò nelle campagne con l’occupazione delle terre da parte dei contadini in Sicilia; la protesta ebbe carattere violento e vide l’assalto alle residenze dei proprietari e di una caserma dei carabinieri, in provincia di Caltanisetta in particolare, si ebbe la morte di tredici contadini e di un militare nel corso di un assalto della folla alle forze dell’ordine. Il movimento a favore dei lavoratori agricoli, attivo anche nell’Emilia Romagna, vide non solo il contributo dei socialisti, ma anche quello dei popolari, attraverso le cosiddette leghe bianche, e quello altrettanto notevole delle associazioni degli ex combattenti, ma fra le varie componenti ci furono dei contrasti che diedero luogo ad occasionali scontri fra manifestanti.

    E’ utile tener presente che i governi Nitti e Giolitti cercarono di stemperare il contrasto sociale nel paese, ricercando la collaborazione con i socialisti riformisti e attraverso delle iniziative a favore dei lavoratori, in particolare è da ricordare l’introduzione della giornata lavorativa di otto ore, un decreto per l’utilizzo delle terre incolte, le assunzioni autorizzate dal sindacato.
    Nel novembre di quell’anno si tennero le elezioni politiche che rappresentarono un grave insuccesso per le liste fasciste e i partiti politici che si richiamavano all’interventismo. I giorni precedenti e quelli successivi alla consultazioni videro episodi di violenza di cui furono protagonisti fascisti e arditi. A seguito di questi vennero effettuati numerosi arresti fra i quali lo stesso Mussolini, che venne tuttavia rilasciato per l’intervento del presidente del consiglio Nitti.

    ( http://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Saverio_Nitti )

     L’inizio dei lavori della Camera venne turbato da nuovi incidenti, con l’aggressione dei parlamentari socialisti che avevano accolto con provocazioni l’arrivo del re, da parte di studenti e ufficiali monarchici, ma anche la morte di uno studente nazionalista, e l’assalto di un armeria da parte dei manifestanti di sinistra.

    L’insuccesso elettorale dei fascisti frenò per un certo periodo gli scontri fra gruppi politici, tuttavia continuarono gli scontri fra forze dell’ordine e manifestanti, nonché di quest’ultimi con i cosiddetti crumiri. Una parte della popolazione non tollerava i disordini e il continuo ricorso alla cessazione del lavoro, e si costituirono associazioni di cittadini – nazionaliste in genere – che intendevano boicottare gli scioperi. I nazionalisti erano abbastanza presenti nel mondo studentesco e diedero vita a Roma nel maggio del 1920 ad una manifestazione per commemorare l’entrata in guerra dell’Italia, manifestazione degenerata in violenza con la morte di cinque guardie regie ed alcuni cittadini.
    A Viareggio e a Bari si ebbero sommosse popolari durate alcuni giorni che videro l’assalto di caserme e il blocco delle ferrovie per impedire l’arrivo delle truppe di rinforzo. A Milano uno sciopero dei ferrovieri sostenuto dagli anarchici provocò ugualmente diverse vittime fra forze dell’ordine e cittadini. In Puglia si ebbero nuove occupazioni delle terre e assalti alle case dei proprietari. Il bilancio più pesante degli scontri si ebbe nel giugno ad Ancona. Un reggimento di bersaglieri che attendeva la smobilitazione ebbe l’ordine di partire per l’Albania, i soldati si ribellarono, arrestarono i loro ufficiali e chiesero il sostegno della locale camera del lavoro e dei partiti della sinistra. Le organizzazioni operaie ed una parte della popolazione cittadina diedero inizio ai disordini, trafugarono le armi, diedero l’assalto ad alcune caserme ed eressero barricate nella città. I moti si allargarono ad altre città con assalti alle armerie e attentati ai treni. Il governo revocò l’ordine di imbarco dei bersaglieri e mantenne un atteggiamento relativamente prudente. Gli scontri comunque durarono alcuni giorni e si conclusero con una trentina di morti di cui una decina fra le forze dell’ordine.

    Nello stesso periodo le questioni di politica estera continuavano ad agitare il paese. A Trieste si era avuta notevole tensione fra italiani e slavi. Il movimento fascista era ben presente nella città, disponeva della sezione più numerosa d’Italia, e faceva sentire la sua voce sulla questione dalmata. L’episodio di violenza più noto è quello dell’incendio dell’hotel Balkan

    dove erano ospitate le sedi di alcune associazioni slave. Dopo una intensa sparatoria, con morti da entrambe le parti, l’edificio ormai vuoto, venne dato alle fiamme. Il numero delle vittime non fu alto, comunque suscitò emozione nel paese, che viveva con preoccupazione la questione della Dalmazia e dei rapporti con la Jugoslavia. Pochi giorni dopo si ebbe l’assalto da parte di nazionalisti e fascisti alla tipografia dell’Avanti a Roma, nel corso del quale vennero aggrediti due deputati socialisti. Nello stesso giorno venne ucciso dai dimostranti un “volontario” che si era posto alla guida di un tram per boicottare lo sciopero degli autotranvieri.

    L’occupazione delle fabbriche del Nord nell’estate di quell’anno, con la sua sfida diretta allo stato, rappresentò il culmine del biennio rosso e costituì uno degli eventi che maggiormente scosse l’opinione pubblica; scrisse Giovanni Amendola nel settembre di quell’anno: “come può darsi che lo Stato non venga direttamente tirato in questione dalla pratica ed attuale negazione di quella proprietà privata, che è garantita dalle sue leggi? O dalla violazione più completa del diritto personale, effettuata da individui e da organi che parlano e agiscono in nome di un diritto inconciliabile con l’ordine presente? O infine dall’impiego di forza armata contro la forza armata dello Stato ed in sostegno della violazione continua e radicale delle sue leggi ed in appoggio di una situazione la quale, mentre è incompatibile con l’istituzione statale italiana, obbedisce invece nello spirito e nelle forme alla volontà ed alle vedute pubblicamente manifestate da uno Stato che sinora non è italiano e cioè dalla Repubblica dei Soviet?”

    Che il timore di una violenta degenerazione politica non fosse solo una preoccupazione di conservatori e borghesi è confermata da Giorgio Bocca nella sua biografia di Togliatti. Il giornalista riporta i piani militari degli occupanti, le guardie rosse, che disponevano di un gran numero di armi, e decisero di non portare alle estreme conseguenze l’azione per lo scarso sostegno di cui disponevano nelle zone di provincia. Alcuni giorni prima dell’accordo sindacale che doveva porre fine all’occupazione delle fabbriche,

     

    Guardie Rosse Torino

    si ebbero a Torino degli scontri che costarono la vita a quindici persone di cui la metà fra le forze dell’ordine.

    Particolarmente importanti nella degenerazione dello scontro politico che portò alla formazione dello squadrismo, sono considerati gli avvenimenti di Bologna e di Ferrara del novembre dicembre 1920. Le guardie rosse a seguito di un attacco armato dei fascisti ad una manifestazione per l’insediamento della amministrazione socialista cittadina a Bologna, lanciarono alcune bombe colpendo gli stessi manifestanti e provocando la morte di dieci persone, contemporaneamente venne ucciso un consigliere della destra. A Ferrara una manifestazione antisocialista venne fatta oggetto di colpi d’arma da fuoco e si ebbero tre caduti fra i fascisti e due fra i socialisti, il fatto provocò numerose proteste, e spinse la popolazione cittadina a simpatizzare con la destra. Scrisse in quel periodo il Corriere della Sera a proposito delle nuove organizzazioni fasciste e dei socialisti “abituati a vincere senza incontrare resistenze, senza esporsi a pericoli, abituati a vedere la borghesia e il governo piegar sempre il capo ai loro ultimatum, oggi avvertono che c’è qualcosa di mutato”.

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